E’ il secondo romanzo che ho letto di Mario Rigoni Stern, e anche questa volta sono rimasto colpito da un’opera autobiografica a mio giudizio imperdibile e indimenticabile. Se “Il sergente nella neve” era il racconto della disfatta militare nella campagna di Russia, e il doloroso ripiego dall’accerchiamento sul Don, in questo romanzo l’autore propone la propria giovinezza, unendo ai ricordi del suo avvicinamento alle armi, quelli più personali, offrendo anche un suggestivo ritratto di quegli anni.
La narrazione copre il periodo 1938-1943, dalla volontà espressa di arruolarsi in marina, goffa decisione freddamente respinta, all’arruolamento negli alpini, con formazione, sogni e aspettative che possono essere considerate proprie per tutta quella generazione che visse sulla propria pelle l’assurdità della guerra. Vengono offerti anche momenti particolarmente commoventi come il rapporto con i propri affetti; molto incisivo e toccante il discorso fatto con lo zio a Torino, durante appunto quella che fu “l’ultima partita a carte”:
Zio,-gli dissi,- vedrai che finirà presto. Quando noi arriveremo in Russia sarà già tutto finito. Mi guardò in silenzio. Sussurrò: - ragazzo, tu parti perché sei un soldato. Ti auguro solo di tornare. Queste ultime parole scesero pesanti e riprendemmo la partita. Loro , quelli cui andavo a combattere, avevano il settebello, gli ori, gli assi, noi le scartine. Le nostre figure erano già giocate
I ricordi ripercorrono anche gli stessi episodi raccontati ne “Il sergente nella neve”, aggiungendo dettagli e ancora più profondità ad una lettura che non può essere dimenticata.
Mi è piaciuto moltissimo e ritengo sia un’opera indispensabile nel bagaglio culturale di ogni italiano. E’ un romanzo brevissimo, che si divora in un pomeriggio, ma ne consiglio la lettura soltanto dopo aver letto “Il sergente nella neve”.
Se fosse una canzone “Sul cappello che noi portiamo”, tradizionale canto degli alpini
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