martedì 11 giugno 2013

Sogni di Bunker Hill – John Fante


Questo romanzo è l’ultimo atto della saga di Arturo Bandini, il testamento di un personaggio che nei romanzi precedenti Fante ha fatto amare e odiare.
Bandini è sempre lui, sempre sbagliato, fuori di testa, fuori luogo, fuori tempo massimo, un giocatore di calcio folle che calcia il suo rigore a porta ormai vuota, quando tutti sono già negli spogliatoi, e nonostante la presunzione di essere il migliore riesce a centrare il palo!
In questo romanzo il protagonista è meno arrabbiato, megalomane, scorretto, ma pur sempre fedele al personaggio che abbiamo conosciuto in precedenza (La strada per Los Angeles).
La storia è sempre la stessa, Bandini che insegue il sogno di un presente dorato fatto del successo come scrittore e sceneggiatore per la ruggente Holliwood degli anni ’30, in una Los Angeles che già allora poteva costituire la massima espressione del sogno americano, o il più triste dei fallimenti.
Bunker Hill è il quartiere dove alloggia il protagonista, lontanissimo dal lusso delle ville dei divi del cinema e ancora più lontano da Boulder, la sua città natale del Colorado.
Ripropongo un passo:

C’era un posto, e c’erano persone che mi amavano, e io sarei andato da loro. Così, fanculo Los Angeles, e le tue donne con i culi alti, e le tue strade alla moda, perché io me ne vado a casa, torno in Colorado, torno nella dannata migliore città degli Stati Uniti: Boulder, Colorado.
[…]
Loro non mi consideravano un fallito Ero un eroe, un conquistatore tornato dai lontani campi di battaglia. Mi diedero persino la sensazione di contare qualcosa nel mondo.

La storia è solo il disperato tentativo di affermarsi, di inseguire un sogno troppo grande, anche quando è quasi a portata di mano, anche quando sarebbe bastato fare un passo indietro per andare avanti: Bandini si conferma se stesso, come eroe delle scelte sbagliate, maestro di tutto quello che il lettore non farebbe mai.
La storia di per sé non ha una fine, il romanzo è Bandini, un ventenne spregiudicato e aggressivo che non perdona la vita per non avergli dato il successo, o forse solo la capacità di non farselo sfuggire.
Il romanzo è scritto benissimo, i personaggi sono indimenticabili, i dialoghi convincenti, e le descrizioni di luoghi scintillanti e meravigliosi, ma anche squallidi e fatiscenti, esaltano il rapporto stridente tra ricchezza e povertà, tra successo e fallimento, massima espressione che Los Angeles rappresenta nel sogno americano: l’estremo ovest; più avanti c’è solo il mare.
Tanti autori hanno fatto dei vinti i propri eroi, proponendo romanzi diversi con personaggi accomunati da uno stesso destino: la sconfitta! Fante ha creato Bandini, il non eroe per eccellenza!
Di recente sono stato a Los Angeles e mi è capitato di passare proprio in quei luoghi: Holliwood Boulevard, Beverly Drive, ammirando lo splendore dorato del cinema, quello fatto di divi, auto di lusso, ville straordinarie. Camminando per Olive Street, Fifth Street, Seventh Street in mezzo alla frenesia dei passanti, al traffico, circondato da quei grattacieli altissimi si ha quasi la sensazione di veder spuntare, da un momento all’altro, un ragazzo con una macchina da scrivere e un bel vestito, che cammina svelto dietro ad un futuro già scritto.
Il romanzo mi è piaciuto tantissimo, ma consiglio la lettura solo dopo aver letto almeno uno dei precedenti capitoli della saga di Bandini.
Se fosse una canzone “The passenger” di Iggy Pop.

lunedì 3 giugno 2013

La iena di San Giorgio – La vera storia di Giorgio Orsolano. Un serial killer piemontese – Maurizio Bonfiglio, Maddalena Strazio.


Nei racconti degli anziani, avevo sentito parlare di un uomo che uccideva ragazzine per farne salami, ma credevo che fosse una delle tante leggende popolari, costruite per spaventare i più piccoli e divertire i più grandi.
Ricordo il caro amico Roberto, scomparso due anni fa, raccontarmi di un paese del basso Canavese dove c’era un uomo che mangiava le persone, di non sapere altro ma di assicurarmi che la storia non fosse una favola, che già nella sua infanzia, trascorsa a Torre Canavese (To), circolasse questo racconto.
Questo libro è un’analisi diretta e minuziosa di questo episodio di cronaca nera. La proposta documentale è offerta intorno alla tante leggende costruite dalle persone, che gli autori non smentiscono con arroganza, ma proponendo documenti storici ufficiali e stralci di giornali dell’epoca, fanno sfumare con la documentazione storica dei fatti.
Viene ricostruita la storia di Giorgio Orsolano, nato nel 1803 a San Giorgio Canavese (To), macellaio del paese, in gioventù condannato per molestie e diventato tristemente noto per aver rapito e ucciso tre ragazzine, i cui corpi dopo essere stati tagliati a pezzi furono dispersi lungo un torrente. L’analisi degli atti del tribunale e dei giornali dell’epoca non fa emergere nulla circa l’ormai famosa leggenda dei salami fatti con carne umana e venduti dal macellaio.
La realtà parla di due sparizioni sospette e facilmente riconducibili ad Orsolano e il rapimento, lo stupro, l’omicidio e l’occultamento del corpo smembrato di Francesca Tonso, di anni quattordici. La condanna di colpevolezza vedrà Orsolano riconosciuto responsabile di tutti e tre i delitti e condannato a morte per impiccagione proprio del luogo dove commise i suoi reati. La sentenza venne eseguita pochi giorni dopo l’omicidio dell’ultima ragazzina, reato che il macellaio confessò.
Ritengo che questa pubblicazione sia una lettura molto interessante, non tanto per i fatti di cronaca narrati quanto per far riflettere il lettore sulla collocazione temporale del male quale espressione peggiore della natura umana: non è vero che una volta i fatti efferati di cronaca che riempiono i quotidiani non succedevano. Il Male è sempre esistito, fa parte della natura dell’uomo esserne preda, vittima e anche artefice.
Ripropongo un passo tratto da un articolo di Don Giuseppe Ponchia, storico e sacerdote di Montanaro C.se, riportato nel libro:

Riferisco questa fosca pagina di storia canavesana anche per dire ai “laudatores temporis acti” che il mondo è sempre stato uguale: un misto di bene e di male, di bontà e di ferocia, e che i tempi passati non furono né migliori  né peggiori dei tempi nostri.

Una riflessione interessante è inoltre l’osservazione del clamore, generato all’epoca da questo episodio, che per l’esecuzione delle sentenza vede accorrere al piccolo paese di campagna più di diecimila persone che i racconti di allora ricordano come una catastrofe per i terreni circostanti e per l’impossibilità di trovare un carretto a noleggio nella città di Torino: tutti volevano assistere all’impiccagione. Il trattato illuminista di Cesare Beccaria (1738-1794) sulla pena di morte non era ancora un modello rieducativo e il principio di redimere un condannato era ancora ben lontano dall’essere radicato nei principi di una costituzione. E’ vero, una condanna a morte non riporta in vita le vittime, non è un deterrente per reati analoghi, e non costituisce una garanzia di non reiterazione del reato più di quanto potrebbe fare una detenzione efficace, ma sicuramente dona equilibrio a quelle coscienze che sono rimaste sconvolte dalla brutalità di episodi analoghi a questi, e a coloro che sono riusciti a riconoscersi prede pur non essendo vittime.
I nostri quotidiani sono pieni di episodi di cronaca nera che dopo il clamore iniziale, fomentato dalla ricerca di particolari più scandalosi possibile, terminano tutti, immancabilmente, con la delusione per una sentenza giudicata troppo lieve e iniqua rispetto a quella subita dalla vittima per mano del suo carnefice.
Oggi è cambiata la prospettiva, ma il Male esiste sempre, e un punto di vista più buonista non è una maggiore garanzia per una società migliore e nemmeno l’equilibrio della coscienza; quantomeno fino a quando le vittime continuano ad essere “gli altri”.
Se fosse una canzone “I walk the line” di Johnny “Man in Black” Cash..