Ho scoperto questo autore con il famosissimo romanzo “Il deserto dei Tartari”, e l’ottimo giudizio suscitato è stato un motivo più che
sufficiente per leggerlo ancora.
Il titolo di questo romanzo presenta al lettore quelli che
saranno i due protagonisti indiscussi della narrazione: Barnabo e la montagna.
Barnabo è un giovane guardiaboschi che in una dimensione
senza tempo, ambientata sulle Alpi bellunesi ragionevolmente tra l’inizio del
1800 e i primi decenni del 1900, presta il proprio servizio in una squadra di
presidio, alla quale oltre i consueti compiti di vigilanza è aggiunta la
responsabilità della sorveglianza di una vecchia polveriera, dimenticata dalle
istituzioni con l’abbandono definitivo del progetto di costruzione di una
strada di montagna.
La polveriera è piantata lì, in mezzo ai monti con la sua
ingombrante presenza e l’angosciante responsabilità di doverla difendere da un
nemico mai visto, una specie di lupo cattivo che cammina silenzioso negli
anfratti più scuri del bosco. Ogni tanto il lupo esce e si mangia una pecora:
ecco i briganti, che si materializzano con misteriosi rotolii di pietre, voci,
passi, spari, ma soprattutto l’uccisione di Del Colle, il capo delle guardie.
La tensione sale, e la montagna con i suoi silenzi
implacabili, il freddo, il vento, il buio e la sua sterminata grandezza
amplificano il senso di impotenza del protagonista.
Durante un turno di presidio però è proprio il protagonista
a commettere l’errore di allontanarsi troppo, proprio quando i briganti ritornano,
armati e pronti a tutto come al solito. Vincono di nuovo, sul campo rimane
ferito il caro amico Berton, ma soprattutto rimane sconfitto il giovane
Barnabo, che assiste alla fase conclusiva dell’attacco, ma per paura non interviene.
Barnabo viene definitivamente allontanato dalle guardie, nel
peggiore dei modi: con la medaglia del codardo è costretto a lasciare il paese
trasferendosi da un cugino nel cuore della pianura padana e adattarsi a fare il
bracciante agricolo. L’unico contatto con il suo passato è un corvo che aveva
soccorso e salvato proprio in quell’ultima giornata, ma il giorno in cui la
bestiola spiccherà l’ultimo volo, il passato tornerà a far visita al
protagonista.
Dopo cinque anni trascorsi nell’inedia di un lavoro mai sentito
proprio, l’amico Berton offre al protagonista l’opportunità di una visita in
montagna, creando l’aspettativa di un possibile reinserimento nel corpo.
Barnabo ritroverà tutto e tutti, come se il tempo non fosse
trascorso, constatando però l’assenza di quel rispetto che una volta perduto la
vita difficilmente concede di nuovo. Verrà riassunto come custode, senza una
divisa, e senza il privilegio di sentirsi parte di un gruppo, semplicemente da
solo a presidiare una baita ormai inutile per l’avvenuto smantellamento della
polveriera. Come se ciò non bastasse arriverà anche la consapevolezza di essere
irriso dai vecchi compagni, come una mascotte stupida con la quale giocare nei
ritagli di tempo. La vita però riserverà un’ultima occasione al protagonista,
un’ultima partita per riscattare la propria coscienza almeno davanti a se
stesso: i briganti ritornano, e questa volta per Barnabo non può che essere la
resa dei conti.
Il ritmo della narrazione è sempre molto lento, silenzioso,
come se il lettore venisse trasportato di peso in una dimensione dove le
distanze sono ore di cammino, fatica e silenzio, dove non esistono confini se
non quelli che ognuno di noi può riconoscere dentro se stesso, dove i predatori
possono essere dovunque, dove anche se muori tutto rimane come se tu non fossi
mai esistito.
Questa lettura mi è piaciuta molto, in quanto molto
suggestiva ed evocativa, pur riconoscendo si tratti di un romanzo di non facile
approccio. Ne consiglio la lettura in particolare a coloro che amano la
montagna, ne condividono i silenzi e ne apprezzano la durezza, e soprattutto a
chi ha un’inesauribile nostalgia delle atmosfere, fatte di attese e dimensioni
fuori dal tempo, che Buzzati ha saputo offrire con “Il deserto dei Tartari”.
Se fosse una canzone, “Enjoy the silence” dei Depeche Mode.
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