lunedì 14 marzo 2016

Il richiamo della foresta – Jack London



Ecco un'altra romanzo imperdibile, solitamente proposto tra le letture giovanili, è un vero capolavoro.
E’ la storia di un cane, Buck, che per uno scherzo beffardo del destino, viene strappato dalla sua comoda vita di cane di compagnia in una famiglia ricca californiana e gettato come cane da slitta nell’infernale corsa all’oro dell’Alaska del XIX secolo.
La trama può apparire banale, ma nella sua semplicità è un’occasione strepitose per presentare al lettore la forza della natura, dominata da istinti e sopravvivenza, e la cattiveria umana, fatta di cupidigia e avidità. Buck è soltanto un pretesto per parlare di tutto questo, un modo per tradurre quest’opera da romanzo per ragazzi a strepitosa parabola sulla vita, dove la determinazione e lo spirito di adattamento possono essere la ricetta per riscattarsi da ogni avversità. Il protagonista, pur essendo soltanto un cane, diventa un personaggio eroico, dall’ingenuità disarmante e dalla forza di volontà incrollabile, che accompagna il lettore in un’esperienza davvero emozionante e avvincente. Indimenticabile il rapporto di amicizia che nasce tra il protagonista e il trapper John Thorton.
Molto interessante inoltre è la prefazione di Oriana Fallaci dell’edizione della Rizzoli, nella quale la grande filosofa offre riflessioni e spunti sul personaggio protagonista, lasciando al lettore elementi in grado di trasformare la lettura in una visione più profonda di quella che si potrebbe riconoscere ad un semplice romanzo di avventura.
Ripropongo alcuni passi molto suggestivi:

Al primo passo sulla superficie fredda, le zampe di Buck affondarono in qualche cosa di bianco e di morbido, molto simile al fango. Balzo indietro sbuffando. Una gran quantità di quel fango bianco si agitava nell’aria. Si scosse; ma continuava a venirgli addosso. Annusò curiosamente quella cosa e si proò a leccarla. Sembrava fuoco e subito scompariva. Buck non capiva più nulla. Provò ancora lo stesso risultato. Intorno a lui quelli che lo guardavano ridevano forte, ed egli si sentì pieno di vergogna senza sapere perché: era la prima neve che vedeva.

Doveva dominare o essere dominato; e mostrar pietà sarebbe stato debolezza. La pietà non esisteva nella vita dei primordi. Veniva considerata come paura, e questo malinteso significava morte. Uccidere o essere ucciso, mangiare o essere mangiato, era questa la legge; e a questo comandamento che sorgeva dalle profondità del tempo egli prestava obbedienza.

John Thorton chiedeva poco all’uomo o alla natura. La zona selvaggia non lo spaventava. Con una manciata di sale e un fucile poteva immergersi nella foresta vergine e nutrirsi dove voleva e quanto voleva. Non avendo fretta, al modo degli indiani, dava la caccia al proprio desinare durante il viaggio; e se non lo trovava, al modo degli indiani, continuava a viaggiare con la certezza che prima o poi lo avrebbe trovato. Così, in questo gran viaggio verso l’Est la cacciagione fu il loro cibo, le munizioni e gli attrezzi costituirono il principale carico della slitta, e il termine del viaggio fu stabilito nel futuro senza limiti.

Inutile dire che mi è piaciuto tantissimo e ne raccomando la lettura a chiunque: veloce, incalzante e serrato, in grado di donare suggestioni uniche circa la natura e le sue regole, nonché meravigliosa fonte di riflessione sul concetto di uomo quale dominatore/padrone.
Se fosse una canzone la magistrale “Promentory” di Trevor Jones.

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