lunedì 9 dicembre 2013

Barnabo delle montagne – Dino Buzzati


Ho scoperto questo autore con il famosissimo romanzo “Il deserto dei Tartari”, e l’ottimo giudizio suscitato è stato un motivo più che sufficiente per leggerlo ancora.
Il titolo di questo romanzo presenta al lettore quelli che saranno i due protagonisti indiscussi della narrazione: Barnabo e la montagna.
Barnabo è un giovane guardiaboschi che in una dimensione senza tempo, ambientata sulle Alpi bellunesi ragionevolmente tra l’inizio del 1800 e i primi decenni del 1900, presta il proprio servizio in una squadra di presidio, alla quale oltre i consueti compiti di vigilanza è aggiunta la responsabilità della sorveglianza di una vecchia polveriera, dimenticata dalle istituzioni con l’abbandono definitivo del progetto di costruzione di una strada di montagna.
La polveriera è piantata lì, in mezzo ai monti con la sua ingombrante presenza e l’angosciante responsabilità di doverla difendere da un nemico mai visto, una specie di lupo cattivo che cammina silenzioso negli anfratti più scuri del bosco. Ogni tanto il lupo esce e si mangia una pecora: ecco i briganti, che si materializzano con misteriosi rotolii di pietre, voci, passi, spari, ma soprattutto l’uccisione di Del Colle, il capo delle guardie.
La tensione sale, e la montagna con i suoi silenzi implacabili, il freddo, il vento, il buio e la sua sterminata grandezza amplificano il senso di impotenza del protagonista.
Durante un turno di presidio però è proprio il protagonista a commettere l’errore di allontanarsi troppo, proprio quando i briganti ritornano, armati e pronti a tutto come al solito. Vincono di nuovo, sul campo rimane ferito il caro amico Berton, ma soprattutto rimane sconfitto il giovane Barnabo, che assiste alla fase conclusiva dell’attacco, ma per paura non interviene.
Barnabo viene definitivamente allontanato dalle guardie, nel peggiore dei modi: con la medaglia del codardo è costretto a lasciare il paese trasferendosi da un cugino nel cuore della pianura padana e adattarsi a fare il bracciante agricolo. L’unico contatto con il suo passato è un corvo che aveva soccorso e salvato proprio in quell’ultima giornata, ma il giorno in cui la bestiola spiccherà l’ultimo volo, il passato tornerà a far visita al protagonista.
Dopo cinque anni trascorsi nell’inedia di un lavoro mai sentito proprio, l’amico Berton offre al protagonista l’opportunità di una visita in montagna, creando l’aspettativa di un possibile reinserimento nel corpo.
Barnabo ritroverà tutto e tutti, come se il tempo non fosse trascorso, constatando però l’assenza di quel rispetto che una volta perduto la vita difficilmente concede di nuovo. Verrà riassunto come custode, senza una divisa, e senza il privilegio di sentirsi parte di un gruppo, semplicemente da solo a presidiare una baita ormai inutile per l’avvenuto smantellamento della polveriera. Come se ciò non bastasse arriverà anche la consapevolezza di essere irriso dai vecchi compagni, come una mascotte stupida con la quale giocare nei ritagli di tempo. La vita però riserverà un’ultima occasione al protagonista, un’ultima partita per riscattare la propria coscienza almeno davanti a se stesso: i briganti ritornano, e questa volta per Barnabo non può che essere la resa dei conti.
Il ritmo della narrazione è sempre molto lento, silenzioso, come se il lettore venisse trasportato di peso in una dimensione dove le distanze sono ore di cammino, fatica e silenzio, dove non esistono confini se non quelli che ognuno di noi può riconoscere dentro se stesso, dove i predatori possono essere dovunque, dove anche se muori tutto rimane come se tu non fossi mai esistito.
Questa lettura mi è piaciuta molto, in quanto molto suggestiva ed evocativa, pur riconoscendo si tratti di un romanzo di non facile approccio. Ne consiglio la lettura in particolare a coloro che amano la montagna, ne condividono i silenzi e ne apprezzano la durezza, e soprattutto a chi ha un’inesauribile nostalgia delle atmosfere, fatte di attese e dimensioni fuori dal tempo, che Buzzati ha saputo offrire con “Il deserto dei Tartari”.
Se fosse una canzone, “Enjoy the silence” dei Depeche Mode.

giovedì 5 settembre 2013

Niente di nuovo sul fronte occidentale – Erich Maria Remarque

Quest’opera è senza dubbio uno dei manifesti mondiali contro l’orrore della guerra, ma anche un freddo e spietato romanzo storico sugli scenari della Prima Guerra Mondiale sul fronte franco-tedesco delle Fiandre.
L’autore stesso partecipa al conflitto proprio in quei luoghi, e la sua esperienza è quanto di più efficace possa esserci per offrire un ritratto così duro del significato oggettivo e umano della guerra. La guerra è solo un insieme di persone, emozioni, dolore e tanta inconsolabile sofferenza dell’anima.
Il romanza narra la storia di un gruppo di studenti tedeschi poco più che adolescenti, che vengono entusiasmati e convinti ad arruolarsi come volontari da un loro docente, molto più idealista che intelligente, alle prime mosse del primo conflitto mondiale, sventolato al mondo come una guerra lampo per le innovative tecniche (armi, trincee, tanks, gas nervini e quant’altro la follia umana potesse partorire con le conoscenze dell’epoca) avrebbe dovuto risolversi in fretta donando pace e equilibri geopolitici finalmente giusti e stabili. Le solite parole che leggiamo tutt’ora per giustificare l’ennesima guerra giusta che si vuole cominciare.
Viene offerto così il racconto del periodo di addestramento, con umiliazioni e angherie da parte del sadico sottufficiale di turno, il trasferimento al fronte ed infine la dura vita della guerra di trincea, fatta di snervanti attese, freddo, caldo, fame, sete, pidocchi, ferite che guariscono male e lentamente, paura, nostalgia e soprattutto morte e sofferenza.
Lo scenario vuole proporre la vita dei protagonisti come un inno alla vita, dove, con mille espedienti e sotterfugi, i ragazzi riescono comunque a gioire del sentimento di amicizia che li unisce in un contesto così terribile: basta un pollo, un fiasco di vino, poche salsicce o della cioccolata per fare festa, per sentirsi vivi, per ricordarsi che la vita è bella anche se la guerra è terribile.
Purtroppo la guerra, nel suo significato più drammatico vince sempre, lasciando a chi ha la sventura di viverla un senso di inconsolabile ingiustizia, sia che si tratti di morti o di feriti. Le guerre non hanno sopravvissuti o vincitori, soltanto morti o reduci e nessuno può uscirne illeso!
Il senso del romanzo è proprio questo. La guerra nella sua spietata durezza riesce addirittura ad essere “equa”: tutti la soffrono, dall’insegnate nazionalista, al terribile caporale istruttore, fino all’ultimo dei ragazzi della comitiva. Tutti muoiono, e lo si comprende già dopo poche pagine di lettura. Non si tratta di un romanzo di avventura dove i buoni vincono sempre, in guerra ci sono solo sconfitti.
La lettura è molto veloce, ma estremamente pesante per le situazioni e le descrizioni così drammatiche da togliere il fiato. Propongo alcuni passi, che ritengo particolarmente incisivi:

Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere nella dolce terra: ma quale vita?Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.

Abbiamo i volti incrostati di fango, le teste vuote, siamo stanchi morti: quando viene l’attacco, certuni bisogna svegliarli a calci e pugni perché camminino: gli occhi sono infiammati, le mani graffiate,  i ginocchi sanguinanti, i gomiti contusi.

Ah mamma mamma! Alziamoci e andiamo via insieme, indietro negli anni, fino a che questa miseria non gravi più sopra di noi, indietro, tu ed io soli, mamma!
Ah mamma mamma, come è possibile che io ti debba lasciare? Chi ha un diritto sopra la mia persona più di te? … Quante cose abbiamo da dirci che non ci diremo mai…
[…] Ero un soldato e ora non sono più che un essere dolorante: per me, per mia madre, per tutta questa desolazione senza fine. Non avrei mai dovuto venire in licenza.

Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: “Compagno io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto, e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno!Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e lo stesso terrore e lo stesso patire… Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare”.

Vengano i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranza che posso guardare dinnanzi a me senza timore,. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se io abbia saputo dominarla non so. Ma finché dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta o non vi consenta quell’essere, che nel mio interno dice “io”.

L’aspetto che ho trovato più doloroso è vedere la trasformazione progressiva dei protagonisti che con il passare del tempo diventano sempre più rassegnati e disillusi, accettando la morte non più come una naturale evoluzione della vita, ma addirittura come un sollievo alle terribili sofferenze patite, alle quali per l’incredibile durezza non può corrispondere nessun altra via di uscita se non il trapasso ultimo.
Non è un romanzo facile, ma ciò nonostante ritengo debba essere una di quelle letture indispensabili per ogni individuo. E’ una lettura cruda, violenta e spietata, piena di particolari macabri e situazioni al limite dell’umana comprensione, ma questi fatti sono successi, e il disagio di dover confrontarsi con certe emozioni, non è nulla in confronto a quanto quei ragazzi hanno dovuto subire sulla loro pelle.
Leggetelo, leggetelo, leggetelo, anche se questo dovesse far vergognare di tutte le volte che ognuno di noi si è lamentato per qualche sciocchezza banale, o anche se alla fine si finirà per provare quel senso di inconsolabile sconforto di fronte a tutte le guerre giuste che ancora si combattono, come se tutti quei ragazzi morti in mezzo a quelle orribili sofferenze non fossero stati sufficienti a comprendere l’assurdità della guerra.

Se fosse una canzone, “Il silenzio fuori ordinanza” di Nini Rosso, un incredibile e struggente interpretazione di tromba che ha fatto piangere decine di giovani in occasione della loro ultima notte sotto le armi, l’ultima prima dell’alba che segnava l’inizio di una nuova vita.
I protagonisti di questo romanzo non hanno mai potuto vivere l’emozione del congedo ne ascoltare questo brano, ma mi piace immaginare che dove si trovano ora possano udirlo ed emozionarsi con la consapevolezza che quelle note sono anche per loro e che non sono stati dimenticati.

mercoledì 31 luglio 2013

Stagioni – Mario Rigoni Stern


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In questa raccolta di racconti il protagonista è sempre lo stesso: la natura, la vita, quella che pulsa a prescindere dall’uomo. Noi siamo solo una comparsa, e Mario Rigoni Stern ci ricorda con quest’opera di non commettere l’errore di sentirsi protagonisti del mondo, invitandoci con calma a fare gli spettatori, perché lo spettacolo non è quello che invano cerchiamo, ma quello che ci circonda e con infinita arroganza nascondiamo in giornate piene di un nulla chiamato profitto.
In questi racconti non vince nessuno, sono semplicemente una finestra aperta alla quale affacciarsi per ammirare la natura.
Non c’è sensazionalismo, non ci sono i superlativi che ormai sono diventati la regola sui mass-media, e leggendo si è sempre più consapevoli della delirante deriva della società in cui viviamo dove la Natura è solo una cornice, spesso invadente e fastidiosa, in grado di turbare il meraviglio grigio della quotidianità.
L’opera è divisa in quattro parti, una per ogni stagione, e in ognuna vengono proposti racconti che spaziano dai ricordi della guerra, a vicende personali, tradizioni e ricordi, contestualizzati comunque sulle caratteristiche della natura in quel particolare momento dell’anno.
Il ritmo è calmo e il trasporto è davvero totale: Mario Rigoni Stern ci offre il percorso di una vita osservato con lo sguardo silenzioso di un montanaro. I racconti non sono tristi, ma la consapevolezza che Mario non ci sia più, ricopre tutto di un’infinita malinconia, come se si trattasse della consapevolezza che senza di lui sia più difficile fermarsi a guardare la vita come uno spettacolo, senza la necessità di rincorrere per forza qualcosa.
Propongo alcuni passi che ho trovato particolarmente incisivi:

Ma dov’è questo freddo che i giornali e le televisioni ci vogliono far credere? Freddo polare, freddo siberiano, bufere di neve, strade ingolfate… Anche d’estate si scrive caldo africano, siccità che spacca la terra; per dire dopo qualche giorno violenti temporali e piogge insistenti, freddo autunnale. […]
Insomma, basta con queste lagne. E’ perché viviamo sempre in case surriscaldate, perché facciamo poco movimento; perché le donne vanno vestite leggere per far vedere le forme e la pelliccia la indossano in mezza stagione per farsi notare, perché i giovani vestono i jeans e non mettono le mutande di lana e bevono bevande fredde invece di tè caldo.

Sensi e fantasia ti aiutano a scoprire la primavera del bosco, che è misteriosa, segreta, viva.

A sera, ritornati alle vostre case o nella vostra città dopo aver camminato per ore lungo i sentieri o attraversato pascoli e radure, riposato all’ombra di alberi maestosi, ammirato una pianticella appena uscita dal seme, o i tanti fiori colorati e profumati, ascoltato in silenzio le voci della foresta, incontrato una mandria di vacche al pascolo, o il gregge dei pastori lassù dove il bosco finisce, allora vi sarà caro il ricordo di questa giornata e piacevole all’animo il riposo.

Così una dolce malinconia ti prende, la malinconia dell’autunno, e sotto un larice, all’asciutto, cerchi anche tu un luogo dove accucciarti per meditare sulle stagioni della tua vita e sull’esistenza che corre via con i ricordi che diventano preghiera di ringraziamento per la vita che hai avuto e per i doni che la natura ti elargisce.

Questa raccolta mi è piaciuta moltissimo, Mario Rigoni Stern è uno dei miei autori preferiti, e consiglio la lettura a tutti, magari dopo una giornata pesante, quando la stanchezza e la frenesia non lasciano nemmeno lo spazio per aspettarsi qualcosa di meglio. Basta leggere, e aprire gli occhi con lo sguardo di un montanaro di altri tempi.
Se fosse una canzone, “The sound of silence” di Simon & Garfunkel.

martedì 11 giugno 2013

Sogni di Bunker Hill – John Fante


Questo romanzo è l’ultimo atto della saga di Arturo Bandini, il testamento di un personaggio che nei romanzi precedenti Fante ha fatto amare e odiare.
Bandini è sempre lui, sempre sbagliato, fuori di testa, fuori luogo, fuori tempo massimo, un giocatore di calcio folle che calcia il suo rigore a porta ormai vuota, quando tutti sono già negli spogliatoi, e nonostante la presunzione di essere il migliore riesce a centrare il palo!
In questo romanzo il protagonista è meno arrabbiato, megalomane, scorretto, ma pur sempre fedele al personaggio che abbiamo conosciuto in precedenza (La strada per Los Angeles).
La storia è sempre la stessa, Bandini che insegue il sogno di un presente dorato fatto del successo come scrittore e sceneggiatore per la ruggente Holliwood degli anni ’30, in una Los Angeles che già allora poteva costituire la massima espressione del sogno americano, o il più triste dei fallimenti.
Bunker Hill è il quartiere dove alloggia il protagonista, lontanissimo dal lusso delle ville dei divi del cinema e ancora più lontano da Boulder, la sua città natale del Colorado.
Ripropongo un passo:

C’era un posto, e c’erano persone che mi amavano, e io sarei andato da loro. Così, fanculo Los Angeles, e le tue donne con i culi alti, e le tue strade alla moda, perché io me ne vado a casa, torno in Colorado, torno nella dannata migliore città degli Stati Uniti: Boulder, Colorado.
[…]
Loro non mi consideravano un fallito Ero un eroe, un conquistatore tornato dai lontani campi di battaglia. Mi diedero persino la sensazione di contare qualcosa nel mondo.

La storia è solo il disperato tentativo di affermarsi, di inseguire un sogno troppo grande, anche quando è quasi a portata di mano, anche quando sarebbe bastato fare un passo indietro per andare avanti: Bandini si conferma se stesso, come eroe delle scelte sbagliate, maestro di tutto quello che il lettore non farebbe mai.
La storia di per sé non ha una fine, il romanzo è Bandini, un ventenne spregiudicato e aggressivo che non perdona la vita per non avergli dato il successo, o forse solo la capacità di non farselo sfuggire.
Il romanzo è scritto benissimo, i personaggi sono indimenticabili, i dialoghi convincenti, e le descrizioni di luoghi scintillanti e meravigliosi, ma anche squallidi e fatiscenti, esaltano il rapporto stridente tra ricchezza e povertà, tra successo e fallimento, massima espressione che Los Angeles rappresenta nel sogno americano: l’estremo ovest; più avanti c’è solo il mare.
Tanti autori hanno fatto dei vinti i propri eroi, proponendo romanzi diversi con personaggi accomunati da uno stesso destino: la sconfitta! Fante ha creato Bandini, il non eroe per eccellenza!
Di recente sono stato a Los Angeles e mi è capitato di passare proprio in quei luoghi: Holliwood Boulevard, Beverly Drive, ammirando lo splendore dorato del cinema, quello fatto di divi, auto di lusso, ville straordinarie. Camminando per Olive Street, Fifth Street, Seventh Street in mezzo alla frenesia dei passanti, al traffico, circondato da quei grattacieli altissimi si ha quasi la sensazione di veder spuntare, da un momento all’altro, un ragazzo con una macchina da scrivere e un bel vestito, che cammina svelto dietro ad un futuro già scritto.
Il romanzo mi è piaciuto tantissimo, ma consiglio la lettura solo dopo aver letto almeno uno dei precedenti capitoli della saga di Bandini.
Se fosse una canzone “The passenger” di Iggy Pop.

lunedì 3 giugno 2013

La iena di San Giorgio – La vera storia di Giorgio Orsolano. Un serial killer piemontese – Maurizio Bonfiglio, Maddalena Strazio.


Nei racconti degli anziani, avevo sentito parlare di un uomo che uccideva ragazzine per farne salami, ma credevo che fosse una delle tante leggende popolari, costruite per spaventare i più piccoli e divertire i più grandi.
Ricordo il caro amico Roberto, scomparso due anni fa, raccontarmi di un paese del basso Canavese dove c’era un uomo che mangiava le persone, di non sapere altro ma di assicurarmi che la storia non fosse una favola, che già nella sua infanzia, trascorsa a Torre Canavese (To), circolasse questo racconto.
Questo libro è un’analisi diretta e minuziosa di questo episodio di cronaca nera. La proposta documentale è offerta intorno alla tante leggende costruite dalle persone, che gli autori non smentiscono con arroganza, ma proponendo documenti storici ufficiali e stralci di giornali dell’epoca, fanno sfumare con la documentazione storica dei fatti.
Viene ricostruita la storia di Giorgio Orsolano, nato nel 1803 a San Giorgio Canavese (To), macellaio del paese, in gioventù condannato per molestie e diventato tristemente noto per aver rapito e ucciso tre ragazzine, i cui corpi dopo essere stati tagliati a pezzi furono dispersi lungo un torrente. L’analisi degli atti del tribunale e dei giornali dell’epoca non fa emergere nulla circa l’ormai famosa leggenda dei salami fatti con carne umana e venduti dal macellaio.
La realtà parla di due sparizioni sospette e facilmente riconducibili ad Orsolano e il rapimento, lo stupro, l’omicidio e l’occultamento del corpo smembrato di Francesca Tonso, di anni quattordici. La condanna di colpevolezza vedrà Orsolano riconosciuto responsabile di tutti e tre i delitti e condannato a morte per impiccagione proprio del luogo dove commise i suoi reati. La sentenza venne eseguita pochi giorni dopo l’omicidio dell’ultima ragazzina, reato che il macellaio confessò.
Ritengo che questa pubblicazione sia una lettura molto interessante, non tanto per i fatti di cronaca narrati quanto per far riflettere il lettore sulla collocazione temporale del male quale espressione peggiore della natura umana: non è vero che una volta i fatti efferati di cronaca che riempiono i quotidiani non succedevano. Il Male è sempre esistito, fa parte della natura dell’uomo esserne preda, vittima e anche artefice.
Ripropongo un passo tratto da un articolo di Don Giuseppe Ponchia, storico e sacerdote di Montanaro C.se, riportato nel libro:

Riferisco questa fosca pagina di storia canavesana anche per dire ai “laudatores temporis acti” che il mondo è sempre stato uguale: un misto di bene e di male, di bontà e di ferocia, e che i tempi passati non furono né migliori  né peggiori dei tempi nostri.

Una riflessione interessante è inoltre l’osservazione del clamore, generato all’epoca da questo episodio, che per l’esecuzione delle sentenza vede accorrere al piccolo paese di campagna più di diecimila persone che i racconti di allora ricordano come una catastrofe per i terreni circostanti e per l’impossibilità di trovare un carretto a noleggio nella città di Torino: tutti volevano assistere all’impiccagione. Il trattato illuminista di Cesare Beccaria (1738-1794) sulla pena di morte non era ancora un modello rieducativo e il principio di redimere un condannato era ancora ben lontano dall’essere radicato nei principi di una costituzione. E’ vero, una condanna a morte non riporta in vita le vittime, non è un deterrente per reati analoghi, e non costituisce una garanzia di non reiterazione del reato più di quanto potrebbe fare una detenzione efficace, ma sicuramente dona equilibrio a quelle coscienze che sono rimaste sconvolte dalla brutalità di episodi analoghi a questi, e a coloro che sono riusciti a riconoscersi prede pur non essendo vittime.
I nostri quotidiani sono pieni di episodi di cronaca nera che dopo il clamore iniziale, fomentato dalla ricerca di particolari più scandalosi possibile, terminano tutti, immancabilmente, con la delusione per una sentenza giudicata troppo lieve e iniqua rispetto a quella subita dalla vittima per mano del suo carnefice.
Oggi è cambiata la prospettiva, ma il Male esiste sempre, e un punto di vista più buonista non è una maggiore garanzia per una società migliore e nemmeno l’equilibrio della coscienza; quantomeno fino a quando le vittime continuano ad essere “gli altri”.
Se fosse una canzone “I walk the line” di Johnny “Man in Black” Cash..

lunedì 29 aprile 2013

Io e te – Niccolò Ammaniti

Il titolo di questo romanzo è molto essenziale, e soltanto tenendolo in mano, si ha già l’impressione di aver di fronte un concentrato di emozioni: solo 116 pagine.
Il romanzo parla di Lorenzo, un adolescente introverso, e della sua difficoltà diinserirsi nel mondo che lo circonda. La storia è proposta come un racconto autobiografico dello stesso protagonista, che con un flahback narra un episodio molto importante della sua vita, quando dieci anni prima, all’età di quattordici anni si chiude in cantina per fuggire dall’oppressione della sua vita. Solo una fuga può concedere una boccata d’aria di fronte ai genitori ansiosi per il suo carattere introverso, alla scuola con le sue difficoltà; ai suoi compagni di classe, tutti troppo belli e perfetti per riuscire a far parte del loro gruppo. L’occasione arriva quando alcuni compagni di classe organizzano una settimana bianca e Lorenzo, non invitato all’iniziativa, racconta il contrario ai genitori, che pur di assecondare il desiderio di appartenere ad un gruppo gli concedono il permesso di partecipare alla gita. La messinscena è l’unico modo per sottrarsi all’attenzione dei genitori e chiudersi in cantina per regalarsi una settimana di pace assoluta: i vecchi arredi del proprietario precedente, un piccolo servizio igienico e una scorta di bibite e scatolame sono la garanzia della tranquillità assoluta per immergersi in letture di fumetti, videogiochi e soprattutto per sottrarsi alla quotidianità.
L’equilibrio non durerà molto e a scombinare i piani arriverà Olivia, la sorellastra figlia di un precedente matrimonio del padre con la quale Lorenzo ha sempre avuto sporadici rapporti.
Quell’incontro segnerà per sempre la vita del protagonista, mettendo per sempre la parola fine sulla sua infanzia.
Il racconto finisce dieci anni dopo quella settimana, con un finale tanto gelido quanto scontato, ma assolutamente sconvolgente: crescere è difficile, a volte riuscirci è merito di una sana educazione, altre volte solo di fortuna. Questo romanzo di formazione ci ricorda che la vita alle volte può essere cattivissima.
L’autore propone una storia semplice, scritta intorno ai pensieri di un quattordicenne introverso con una vita simile a quelle di tantissime persone, per offrire il ritratto del carattere impavido ed eroico che la disperazione può tirare fuori da ognuno di noi, ricordandoci con il finale che a sopravvivere sono sempre e solo quelli più forti.
Il romanzo diverte e appassiona con una scorrevolezza entusiasmante facendo sentire il lettore vicino al protagonista, sia nei momenti più piacevoli, sia in quelli più dolorosi.
Mi è piaciuto molto, consiglio la lettura a tutti perché si tratta di un bellissimo spunto di riflessione sulle apparenze dorate che spesso sono in grado di nascondere verità molto dolorose.
Se fosse una canzone, “Ci vorrebbe il mare” di Marco Masini.

martedì 2 aprile 2013

Vita e morte del brigante Berardino Viola (1838-1906) – Fulvio D’Amore


Probabilmente il nome Berardino Viola non dice nulla: è passato più di un secolo dalla sua morte e i media contemporanei non hanno mai preso a cuore la sua storia. E’ sufficiente recarsi nei luoghi dove è vissuto per rendersi conto che dopo più di cento anni, nel Cicolano, non è affatto stato dimenticato, consacrato tutt’oggi come un personaggio storico.
Questo saggio di approfondimento è molto di più di una semplice biografia e offre al lettore una panoramica storico-politica molto approfondita sugli equilibri sociali dell’Abruzzo post-unitario. Un celebre detto risorgimentale affermava che “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, e proprio sulle origini di questo concetto prende forma il panorama sociale nel quale nasce il protagonista.
La povertà, lo sfruttamento del bisogno di sopravvivenza, il concentramento dei capitali nella mani di pochi proprietari terrieri, ma soprattutto un carattere ribelle e indomito, fanno del protagonista un personaggio controcorrente, fiero oppositore delle regole e spregiudicato predatore.
Il panorama politico, che vede l’avvicendamento della dominazione Borbonica a quella dei Savoia, è soltanto un pretesto in più per opporsi con contrabbando, rapine, estorsioni e sequestri ad un sistema che avrebbe visto comunque i contadini costretti ad una vita di privazioni, sofferenze e sacrifici, in un’esistenza analoga ad una pena da espiare. La Marsica e il Cicolano, aree impervie per loro natura, si rivelano un ottimo scenario per sottrarsi alla cattura e per approfittare di continue sollevazioni popolari contro i nuovi padroni, spesso represse nel sangue e quindi ottime motivazioni nella quali torvare copertura e seguaci. Berardino Viola parteciperà come sostenitore di Francesco II a numerosi tumulti di piazza contro le truppe garibaldine, più per confondere nel trambusto le proprie scorribande che per convinta ideologia politica.
D’Amore evidenzia con grande dovizia di particolari storici, tratti da documenti giudiziari e atti dei Carabinieri, l’evolversi degli eventi riguardanti la vita del protagonista e di tanti altri banditi che lo hanno affiancato nelle sue scorribande: la famosa banda del Cartore.Si illustrano la grande abilità di approfittare del disequilibrio politico con continui spostamenti, anche in terre vaticane, e la capacità di giocare il ruolo del perseguitato politico piuttosto che quello del bandito: argomentazione che gli permetterà dopo l’arresto di essere estradato in Spagna e da qui fare ritorno nelle terre natie. La storia del protagonista prosegue come una continua caccia, alternando il ruolo di predatore verso i ricchi “milionisti” con quello di preda verso i Carabinieri: l’espressione della nuova autorità nazionale. Non saranno sufficienti anni vent’anni di carcere ai lavori forzati e la condanna all’ergastolo a placare il suo animo e nel luglio del 1900, braccato per aver ucciso un giovane muratore che lo aveva insultato, dopo un cruento scontro a fuoco, venne arrestato e tradotto nel carcere di Ponza dove morirà nel 1906 all’età di sessantotto anni.
La storia di Berardino Viola, un vero bandito, è anche l’occasione per mettere in luce le grandi contraddizioni che l’Unità d’Italia, ricordata e celebrata come un moto di unificazione risorgimentale, fosse anche una campagna di conquista, che raggiunto il successo ha celebrato i vincitori come eroi e gli sconfitti come briganti oppositori, principio secondo il quale se la vittoria fosse stata degli sconfitti la storia li avrebbe celebrati come partigiani. In quelle zone, con poche strade e tanti boschi, non ha vinto nessuno, la democrazia non esisteva ancora e l’uso della forza unito all’ignoranza erano gli strumenti migliori per il controllo del territorio.
La storia di questo fuorilegge è un’ottima occasione per conoscere alcuni dettagli dell’Unità d’Italia, molto meno noti, e soprattutto fotografati dal lato di chi l’ha subita come un’imposizione. Il Regno di Napoli, modello di equilibrio agricolo e industriale non diverso da quello del Piemonte, dopo l’unificazione diventa il “Mezzogiorno”, ormai sinonimo di povertà, arretratezza e malavita. Fin troppo facile riconoscere in questo passaggio gli attuali scenari economici e politici europei, protagonisti di uno sviluppo a due velocità: da una parte gli utili e la crescita e dall’altra la crisi, fatta di recessione, disoccupazione e pessimismo.
Si tratta di una lettura indubbiamente impegnativa, ma proprio perché in grado di stuzzicare riflessioni attualissime, mi sento di raccomandarla a tutti, perchè le difficoltà generali del periodo storico che stiamo vivendo, siano un’occasione per fare tesoro del nostro passato.
Se fosse una canzone, “Adelante Adelante” di Francesco De Gregori.

giovedì 24 gennaio 2013

Harley-Davidson – Cento anni di moto formidabili – Lou Andersen

“Perché?”. Questa domanda è la prima riflessione che la lettura di questo libro mi ha suggerito! Perché una persona dovrebbe scrivere un libro su un argomento che disconosce completamente, offrendo un’’accozzaglia di particolari sbagliati, correlati da fotografie (magari anche carine ed interessante) accompagnate da didascalie assolutamente improponibili da un punto di vista tecnico? Perché un editore dovrebbe pubblicare un lavoro così assurdo, vendibile soltanto su internet (dove compri senza sfogliare) ad un prezzo (per fortuna) molto basso?
Soldi? Pubblicità? Visibilità? … non saprei proprio, l’unica certezza è che la lettura di questo libro è assolutamente inutile: non insegna, non informa, non diverte, offrendo soltanto l’amarezza di aver comprato una schifezza.
A questo punto offro una breve carrellata di errori, quali ad esempio la foto di una special su base Shovelhead presentata come il primo Softail del 1969, oppure una foto del mitico Low Rider Daytona del 1994 con indicata la cilindrata di 1200 cc (peccato che quella è la cilindrata dello Sportster), o ancora un WL con cilindrata 1340cc… e potrei ancora proseguire!!!
Potrebbero sembrare dettagli di poco conto, ma per un appassionato sarebbe come sostenere che la Basilica di San Pietro è stata costruita in cemento armato da Giuseppe Verdi: la Basilica è sempre lì e si fa apprezzare per le sue caratteristiche, ma la storia è fatta anche di queste.
Ormai l’ho comprato, è sulla mia libreria vicino a testi decisamente diversi, e il suo unico valore è quello di avere alcune foto rare.
Se fosse una canzone, la fantastica “Brutta” dell’indimenticabile Alessandro Canino.